Le Corbusier e Pierre Janneret
Credo che, per qualsiasi architetto, visitare “Ville Savoye” possa rappresentare un’esperienza simile a quella io stesso ho vissuto quando, girovagando per le sale del Prado, d’improvviso e inaspettatamente, mi son trovato per la prima volta davanti all’immensa tela delle Meninas di Velazquez e ho scoperto, quindi, che quel quadro “esiste davvero”, che osservarlo avendolo di fronte a me, poterne cogliere i dettagli oltre che l’insieme, poterne cogliere la potenza figurativa, come se, in quel momento, quel quadro, fosse stato dipinto solo per me, è tutt’altra esperienza che osservarne la riproduzione su un libro o leggerne la descrizione o il commento critico di uno Storico dell’Arte. Così, allo stesso modo, visitare Ville Sovoye, è tutt’altra esperienza rispetto a ciò che scaturisce dall’osservarne le fotografie dalle pagine patinate dei libri d’Architettura o dal leggerne le descrizioni od i commenti dei critici sui testi di Storia dell’architettura. Commenti su Ville Savoye ne ho letti diversi, centinaia di volte, l’ho vista fotografata da chiunque su mille libri diversi, l’ho anche ridisegnata, da studente prima e da docente poi, in passato ho anche scritto qualcosa al riguardo, ma ora, ciò che ho pensato durante la visita è stato un: “ …. la sto guardando e ci cammino dentro”. E’ inevitabile: l’Architettura costruita è sempre un’altra cosa rispetto alle parole, rispetto ai disegni ed alle fotografie.
Villa Savoye è generalmente considerata uno dei grandi capolavori di Le Corbusier, se non il più grande. Per quanto io, forse per motivi del tutto personali, abbia vissuto in modo interiormente più intenso l’esperienza di visita a Notre Dame du Haut, devo riconoscere che la Ville Savoye è un Monumento tremendamente affascinante oltre che particolarmente “parlante”. E ciò che ci comunica, se sappiamo ascoltarlo, è un messaggio di rilevante importanza per comprendere appieno l’Architettura di un Maestro come Le Corbusier.
Le Corbusier e suo cugino Pierre Jeanneret vennero contattati, nella primavera del 1928, da Pierre Savoye, un ricco assicuratore francese parigino, e da sua moglie Eugénie in quanto avevano intenzione di affidargli l’incarico per il progetto di una casa di campagna da costruire a Poissy, una cittadina posta a circa trenta chilometri da Parigi.
Benché l’architetto svizzero avesse 41 anni e fosse già noto sia come teorico dell’architettura che per i suoi progetti sperimentali disegnati, pubblicati ma non ancora costruiti, in realtà in quel periodo non aveva ancora avuto modo di realizzare molti edifici.
La commessa rappresentava quindi per lui un’occasione unica attraverso la quale poter dimostrare concretamente, in un edificio realizzato e senza grandi limiti di spesa, i principi che aveva espresso in “Verso Una Architettura”.
Committenti come i Savoye rappresentano probabilmente ciò che ogni architetto maggiormente sogna: essi, infatti, concessero a Le Corbusier la più ampia libertà nel progettare la casa secondo i suoi principi, limitandosi semplicemente a stilare una lista degli spazi funzionali necessari e chiedendo, nelle fasi finali della progettazione, alcune lievi modifiche esclusivamente di carattere dimensionale tese allo scopo di poter confermare, a lavori finiti, il preventivo di spesa iniziale.
Il lotto di terreno, sul quale costruire la casa, distava circa trenta chilometri a nord ovest dal centro di Parigi e risultava abbondantemente alberato, rivestito d’erba e tranquillo.
Non è chiaro, a tutt’oggi, se i Savoye, che abitavano in Roue de Courcelles a Parigi, volessero semplicemente una casa per vacanze, da utilizzare saltuariamente, o pensassero invece di trasferirsi nella villa utilizzandola quindi come residenza definitiva. Le Corbusier scrisse una volta che “ … i Savoye volevano vivere in campagna, collegati a Parigi da un rapido viaggio in macchina di 30 chilometri”; altri documenti, soprattutto lettere che Eugénie Savoye scrisse all’architetto, potrebbero suggerire che la casa fosse stata pensata come un “buen retiro” per i fine settimana più che come un’abitazione permanente. Tuttavia, la famiglia Savoye era originaria di Lille, nella regione del Nord-Pas-de-Calais, e non aveva particolari legami affettivi con la capitale, è quindi possibile che, data la ridotta distanza tra Poissy e la capitale, dove Pierre Savoye lavorava, essi volessero effettivamente vivere nella nuova casa o almeno trasferirvisi definitivamente una volta in pensione.
Di certo, in una lettera a Le Corbusier, Eugénie Savoye chiede che la casa possa essere ampliabile (Mi piacerebbe che la casa potesse essere ingrandita tra qualche anno, senza che questo la rovini), suggerendo in qualche modo che, presto o tardi, sarebbe diventata la loro abitazione principale.
Villa Savoye è generalmente considerata l’espressione più chiara di quelli che Le Corbusier chiamò “i cinque punti di una nuova architettura” (les cinq points d’une nouvelle architecture), ovvero:
1 – l’uso di sottili colonne (i pilotis) per sollevare l’edificio dal suolo e conservare così una maggiore continuità naturale alla superficie del terreno;
2 – la pianta libera e funzionalmente flessibile (Plan libre) che è resa possibile dall’uso di una struttura intelaiata di cemento armato in sostituzione dell’uso della muratura portante;
3 – la struttura intelaiata, formata da travi e colonne in cemento armato, rende libere anche le facciate dalla funzione strutturale, consentendo, così, all’architetto la libertà di disegnarle secondo criteri funzionali ed estetici svincolati da qualsiasi necessità statica (Façade libre);
4 – la concezione, in copertura, di un tetto piano a terrazza (Toit terrasse) che si possa usare come giardino pensile, come solarium e come “soggiorno all’aperto” durante la bella stagione;
5 – l’uso delle finestre orizzontali a nastro (Fenêtre en longueur) per fornire agli ambienti una maggiore quantità di illuminazione naturale.
Ville Savoye è l’esempio realizzato di questi cinque punti ed anzi li rappresenta quasi “didatticamente”, tuttavia, limitare la specificità del progetto della Villa a questi soli elementi può risultare in qualche modo riduttivo.
Ad esempio, tutti i cinque punti fanno affidamento, in un modo o nell’altro, sull’uso del calcestruzzo armato come principale materiale da costruzione; scelta che, oggi, sembra usuale e quasi banale, ma che assolutamente non lo era negli anni Venti del ‘900.
Agli inizi del Ventesimo secolo, il calcestruzzo armato era ancora considerato un materiale “non usuale” nella prassi costruttiva, destinato maggiormente alle grandi opere di ingegneria più che per le opere di architettura ed appunto, fino a quel momento, era stato infatti utilizzato per realizzare opere infrastrutturali, edifici industriali o per costruzioni militari e casematte durante la Prima Guerra Mondiale. Per la costruzione di edifici civili, fino a quel momento, era stato utilizzato solamente da un pugno di architetti d’avanguardia, tra i quali figurava Auguste Perret, nel cui studio Le Corbusier aveva lavorato negli anni giovanili.
Ovviamente, per ottenere la flessibilità funzionale di cui Le Corbusier aveva bisogno per la sua nuova architettura, una struttura intelaiata risultava assolutamente necessaria; l’architetto svizzero scelse il calcestruzzo armato come materiale elettivo, mentre altri progettisti a lui contemporanei, come ad esempio Mies van der Rohe, preferirono l’acciaio.
Un altro aspetto determinante per l’ideazione del progetto venne rappresentato dal ruolo che, già alla fine degli anni ’20, l’automobile iniziò ad assumere nella vita quotidiana delle classi sociali più agiate. La presenza delle autovetture ebbe un ruolo rilevante nell’influenzare lo schema funzionale dell’edificio: non solo, infatti, una ampia porzione del piano terra venne riservata ad un garage per tre vetture, ma la casa comprendeva anche un piccolo monolocale, funzionalmente autonomo, destinato all’autista. In un lettera del 1928, lo stesso Le Corbusier scrisse a Madame Savoye che “è il raggio minimo di sterzata dell’automobile che definisce le dimensioni della casa”.
Più in generale, la meccanica e la tecnologia, allora già in continua evoluzione, erano viste all’epoca come elementi innovativi indubitabilmente positivi, fattori capaci di trasformare una semplice abitazione in una “macchina per abitare” (Verso una Architettura, 1923), il che spiega l’attenzione dedicata sia dal cliente che dall’architetto alla dotazione impiantistica dell’edificio la quale comprendeva un sistema di riscaldamento a radiatori, l’adduzione idrica e l’illuminazione artificiale. Scriveva al riguardo Eugenie Savoye: “ …. ecco l’elenco dettagliato degli elementi principali che vorrei fossero inclusi nella casa di campagna. Voglio acqua calda e fredda, il gas, l’elettricità (illuminazione e forza motrice), e il riscaldamento centralizzato; la “forza motrice” è necessaria per poter installare una modernissima lavabiancheria elettrica”. Cose tutte, anche queste, che oggi riteniamo “normali”, nel senso che, oggi, non esiste casa, sia pure la più semplice ed economica, che non disponga di queste dotazioni. Pensiamo però al fatto che, negli anni ’20 del ‘900, avere la forza motrice elettrica per alimentare una “lavabiancheria meccanica” rappresentava una innovazione inusuale e di grandissima rilevanza.
Un ulteriore aspetto di innovazione era rappresentata dallo stretto rapporto tra architettura e paesaggio; un aspetto, questo, che non è possibile vivere, od anche semplicemente percepire, dalla semplice osservazione delle fotografie dell’edificio cui siamo abituati, ma che emerge, invece, prepotentemente visitandolo.
In pianta la casa è impostata su una precisa griglia a maglia quadrata sui cui nodi di intersezione sono state collocate le venticinque colonne della struttura verticale dell’edificio, mentre in alzato la griglia diventa rettangolare.
Alla fine del 1928, nelle fasi conclusive della progettazione, la maglia regolatrice orizzontale, e di conseguenza la superficie dell’intero edificio, venne ridotta da 5 a 4,75 metri su richiesta del committente, preoccupato (non senza ragione) che i costi finali potessero superare il preventivo concordato.
Escludendo il portico, la terrazza ed il solarium, la superficie lorda interna della casa era di circa 480 metri quadrati.
Allo scopo di rendere chiara la differenza tra nuova architettura “razionalista” e le forme organiche e riccamente decorate dell’Art Nouveau, la scelta di una geometria basata sul rettangolo e sul quadrato risulta sicuramente intenzionale dal punto di vista formale; tuttavia, tale schema risultava particolarmente adatto anche alla conformazione ed alla distribuzione delle strutture intelaiate in calcestruzzo armato.
Nonostante questo, Le Corbusier introdusse anche volumi basati su matrici circolari ed ellittiche, come nel caso del corpo scala e del solarium; forme e geometrie già presenti nei suoi dipinti coevi e che si sarebbero evolute in modo più compiuto in alcuni dei suoi edifici del dopoguerra, come il Padiglione Philips, la cappella di Notre Dame du Haut e la chiesa di Saint Pierre a Firminy.
Il programma funzionale definitivo comprese il seguente elenco di spazi:
– al piano terra: la hall d’ingresso, il parcheggio per tre autovetture, gli alloggi dell’autista e della cameriera, la lavanderia con “lavabiancheria meccanica” e l’appartamento per gli ospiti.
– al primo piano: l’alloggio dei Savoye con tre camere da letto, quatto bagni / WC, un piccolo soggiorno adiacente alla camera padronale, la cucina, un ampio soggiorno principale affacciato sulla terrazza a livello.
– in corrispondenza della copertura piana il Solarium.
Entro l’edificio, la circolazione verticale è risolta dalla presenza di un rampa di lievissima pendenza – ora interna, ora esterna – che collega, lungo una “promenade architecturale”, il piano terra, il primo piano ed il Solarium e da una scala elicoidale interna anch’essa di collegamento comune tra i tre livelli.
Un piccolo edificio, noto come Casa del Giardiniere, venne realizzato nei pressi dell’ingresso principale alla proprietà. Anche qui, l’abitazione di servizio venne inizialmente pensata con dimensioni maggiori rispetto alla costruzione effettivamente realizzata, ed anch’essa venne ridotta per contenere i costi complessivi dell’intervento.
Dal punto di vista costruttivo, la casa fu completata nel 1929, ma venne considerata abitabile solo nel 1931, dopo che furono provvisoriamente risolti alcuni problemi di funzionamento riguardanti il sistema di riscaldamento che, fin dall’inizio, risultò non del tutto soddisfacente nelle sue prestazioni. I Savoye occuparono la villa, da loro ribattezzata “Les Heures cairese”, per soli nove anni, dato che, nel 1940, la proprietà venne confiscata dall’esercito tedesco per via della sua posizione strategica ai fini del controllo della valle della Senna.
Quando nel 1945 i Savoye vi fecero ritorno, trovarono la casa in stato di totale abbandono.
Sin dal completamento della costruzione, i committenti sollevarono questioni e rimostranze: Le Corbusier aveva adottato tecnologie edilizie innovative per l’epoca – in modo particolare per l’impermeabilizzazione delle terrazze, per i serramenti scorrevoli e per gli impianti – alcune delle quali si dimostrarono non ancora tecnologicamente affidabili. Come conseguenza, i clienti si lamentarono spesso per le infiltrazioni d’acqua dalle coperture e per altri problemi, come ad esempio il malfunzionamento dell’impianto di riscaldamento, probabilmente ritenuto insufficiente a causa della presenza delle ampie superfici vetrate ed a causa dell’assenza di qualsiasi firma di coibentazione, che resero la villa sia onerosa da mantenere che, probabilmente, lontana dal risultare del tutto confortevole.
Subito dopo la fine della guerra, i Savoye presero quindi la decisione di non restaurare l’edificio, che, successivamente, nel 1959, venne espropriato dal Comune di Poissy con l’intenzione di demolirlo per fare spazio all’ampliamento di una scuola esistente in un lotto adiacente confinante.
Nonostante le vibrate proteste dello stesso Le Corbusier, che definiva “impossibile” la demolizione di Ville Savoye, solo una vasta campagna di indignazione, supportata da architetti ed intellettuali di tutto il mondo, risultò fortunatamente determinante per convincere le Autorità locali a risparmiare la casa, ed ad indurre lo Stato Francese a considerarla Monumento nazionale, a restaurarla e, nel 1997, ad aprirla al pubblico.
Nel 2016, Villa Savoye è stata inclusa nei siti Patrimonio dell’Umanità tutelati dall’UNESCO.
Oggi La villa risulta inserita entro una tranquilla area residenziale di Poissy, nei pressi della scuola che occupa sei dei sette ettari della tenuta originale. La zona è tranquilla, dall’atmosfera tipicamente suburbana, e dà l’impressione di non essere poi molto cambiata da quando i Savoye acquistarono il terreno nel 1928.
Entrando nella proprietà, il primo edificio che ci accoglie è la piccola casa del ciardiniere, che già ci presenta, sebbene a scala ridotta e quasi a volerli anticipare, molti degli elementi architettonici della Villa.
Oggi il parco si estende per circa un ettaro – era in origine sette volte più grande – ed è bordato da alberi ad alto fusto e cespugli di rose.
Dopo i restauri degli anni ’90, l’edificio ed il parco si trovano ora in ottime condizioni di manutenzione grazie alle attenzioni ed alla cura costante del Centre des Monuments Nationaux; alcuni degli ambienti, come la cucina e la sala da bagno principale, conservano un parte dell’equipaggiamento e dell’arredo originale, mentre una piccola collezione di mobili disegnati da Le Corbusier è visibile nel soggiorno.
A piano terra della villa è allestita una mostra storica permanente che comprende disegni originali, modelli della casa ed estratti dalla corrispondenza tra Madame Savoye e Le Corbusier.
Come anticipato, la casa non delude le aspettative ed anzi ciò che invece risulta sorprendente ed inaspettato è il suo forte rapporto con il paesaggio circostante.
Siamo abituati ad osservare fotografie in cui la Villa è rappresentata come un candido volume isolato al centro di un prato pianeggiante, o immagini di dettaglio delle sue geometrie interne. Quando la si visita, invece, ciò che emerge prepotentemente è il continuo dialogo visivo tra edificio e paesaggio circostante.
Tutti gli elementi architettonici, le forme ed i colori dell’edificio – con il bianco che predomina – acquistano il loro pieno senso quando si combinano con i verdi, i gialli ed i bruni dell’esterno che “inondano” la casa attraverso le finestre a nastro e le ampie vetrate posizionate in modo sapiente in modo tale da “incorniciare” brani scelti delle vedute circostanti. Sembra quasi che l’architetto Svizzero abbia voluto ricreare, nella piatta valle della Senna, alcuni degli elementi paesistici del Giura in cui era cresciuto. Stranamente, visitando il luogo, perdiamo del tutto quella falsa certezza, che quasi ci ripugnava sul piano teorico, che ci portava a considerare la Ville Savoye come il primo esempio di “macchina per abitare”. Qui, invece, nulla è “macchina”, nulla è informato da spirito ingegneristico, tecnicistico o deterministico. Qui, sovrana, regna esclusivamente l’Architettura.
E, come per qualsiasi altra Architettura, sono i dettagli che costituiscono la differenza rispetto a una qualsiasi altra costruzione: la vasca da bagno, rivestita in piastrelle blu cobalto, il piccolo lucernario che “versa” luce dall’alto, verticale, nel corridoio sottostante, gli arredi in legno e metallo della cucina sono particolari che rivelano che, anche per Le Corbusier, “Dio è nei dettagli”, e trasformano la percezione della villa, da qualcosa che si suppone, chissà poi perché, di conoscere come le proprie tasche in una scoperta ed in una continua rivelazione di cosa inaspettate.
Avevamo pensato, semplicemente immaginandola reale attraverso le fotografie, che il contrasto tra natura ed architettura fosse in questo caso così netto ed assoluto da far percepire la villa come un oggetto estraneo, quasi appartenente ad un altro mondo “futuribile” ed “utopistico”, semplicemente o casualmente posato su quell’erba. E, invece, cosa assolutamente imprevedibile, natura ed architettura qui appaiono talmente interconnesse da indurci a pensare che qui tutto debba essere proprio così-com’è, proprio come un’Architettura deve essere: perfetta e senza tempo.
Dopotutto, anche se abitata per un certo numero di anni, Ville Savoye non è mai stata una casa. Forse fu, almeno nella mente di Le Corbusier, un manifesto o un trattato d’architettura “realizzato”. Un travaglio, certamente. Ovvero il palinsesto visionario di un futuro che doveva realizzarsi; e, se anche volessimo ammettere che molte idee di Le Corbusier si sono affermate nel linguaggio comune dell’architettura d’oggi (cosa che poi, in effetti, non si è per nulla realizzata), dovremmo però aggiungere che ben poco c’è di comune o di “pragmatico” nell’incanto poetico di quel concerto lirico a Poissy. A cominciare dalle condizioni di partenza, dalla scelta del contesto: la sommità di una collina, circondata dal verde, fiera di essere il punto ideale e silenzioso da cui scrutare un mondo tutto preso nel suo frenetico metabolismo. Quel “prototipo-di-modernità-assoluta” chissà perché si tramuta in un’oasi entro la quale meditare, in un’oasi da “contemplare” e diventa, così, improvvisamente “Opera d’Arte”, acquisendo su di sé quell’Aura che il programma iniziale della modernità intendeva contestare ed annullare.
Oppure questa costruzione è il sigillo autobiografico che l’autore vuole porre a una idea nuova dell’architettura che, in sé, però, è assolutamente antica.
Questo piccolo edificio ci appare allora come un libro importante di “microstoria” che, come nessun altro, testimonia le contraddizioni della modernità, ma anche il sogno di ciò che l’architettura moderna potrebbe essere, se davvero lo volesse, e invece non è.
Nell’analizzare con attenzione tanti disegni di Le Corbusier, una dato si rende immediatamente evidente: quando Le Corbusier appone sul disegno le misure delle singole parti che compongono l’edificio, oppure delle distanze che separano tra loro queste parti, egli non scrive, per esempio, “un metro e dieci” oppure “tre metri e cinquanta” (indicate da numeri come 1,10 e 3,50, se espresse in metri, o come 110 e 350, se espresse in centimetri). No. Egli usa espressioni come 1,13M oppure, ancora, 2,26M, in cui quella “M” non indica “metri”, ma rappresenta l’abbreviazione di “Modulo”.
“Modulo”. Nel sentire o nel leggere questo temine, “Modulo”, la mente torna quasi per istinto agli Ordini architettonici classici, alla composizione, cioè, di quegli “Stili”, Dorico, Jonico, Corinzio, Tuscanico e Composito, le cui proporzioni mai venivano espresse metricamente, ma sempre ed unicamente in “Moduli” o nelle sue sottoparti. Un sistema, questo, mirante a rendere evidenti e soprattutto “stabili” e certe le proporzioni degli e tra gli elementi della composizione piuttosto che la dimensione fisica degli stessi. Così, se il Modulo veniva fissato nella dimensione del raggio di base della colonna, se una colonna doveva possedere l’altezza di dodici Moduli, come per esempio nell’Ordine Tuscanico, poca importanza rivestiva il fatto che quella colonna Tuscanica fosse alta solo due metri – perché inserita in una piccola casa d’abitazione – o fosse alta dieci metri – perché inserita in un vasto ed ampio edificio pubblico; l’importante, il dato da rispettare, era costituito dal fatto che doveva rimanere immutato il dato di proporzione del dodici a uno tra raggio di base della colonna ed altezza. Più che un sistema metrico, quindi, quello utilizzato dall’Architettura classica era un sistema proporzionale.
Questa volontà di precisione nel dato proporzionale, espressa anche da Le Corbusier in pieno “modernismo”, nasce, nell’opera dell’architetto svizzero, da un lungo lavoro di meditazione, da quella che lui stesso chiama e definisce come “Recherche patiente”.
I risultati ottenuti nell’opera di Le Corbusier da questa “Recherche patiente” sono stati spesso sottaciuti, oppure, quando pur sono stati illustrati e descritti, sono stati analizzati e descritti più nella loro natura più banale di metodo pratico-funzionale, finalizzato alla standardizzazione degli elementi costruttivi, che nella loro natura estetico-compositiva nell’ambito del metodo compositivo corbusieriano.
In realtà, l’idea, ancora egemone fino a questi ultimi decenni, secondo la quale il Movimento moderno rappresenterebbe lo sforzo compiuto di giungere ad una “tabula rasa” nel rapporto tra la modernità e il passato è ancora viva e (assurdamente?) dominante.
Ma una critica e un’analisi storica che affermano, nel discorso artistico, una teoria evoluzionistica del fare e che, quindi, pongono anche, come indispensabile, una teoria per la quale “l’attuale spazza via l’antico, lo supera e lo rende inadeguato”, diventano un ostacolo verso la piena comprensione di un artista come Le Corbusier.
Se leggiamo con attenzione i numerosi scritti di Le Corbusier e se osserviamo attentamente la gran parte dei suoi disegni possiamo notare che in lui è presente costantemente un duplice orientamento e che questi due orientamenti, solo apparentemente antitetici, opposti e contraddittori, convivono invece in una perfetta unità di intenti e di risultati.
Nella sua idea di Architettura, da un lato c’è una spinta incessante verso il progresso tecnologico che, ovunque possibile, deve essere sempre assecondato; è nota, in questo senso, la sua ammirazione verso gli ingegneri che, nel suo tempo, hanno reso possibile quella libertà compositiva legata allo sviluppo del cemento armato e dell’acciaio ed è proprio sull’adozione diffusa di queste nuove tecnologie (nuove per il suo tempo, ovviamente) che egli basa i punti-cardine della sua teoria della progettazione. Come non ricordare ancora una volta, infatti, le sue idee sulla pianta libera e sull’adozione dei “pilotis” per staccare l’edificio dal suolo o quelle sull’adozione del tetto-giardino? Soluzioni innovative tutte rese possibili dalle scoperte tecnologiche che gli ingegneri del suo tempo avevano perfezionato e messo a punto.
Tuttavia dai suoi scritti si evince con chiarezza che questo suo accoglimento incondizionato della tecnica costruttiva moderna è vissuto nella convinzione che tali tecnologie innovative debbano rivestire esclusivamente il ruolo di “mezzo” e che debbano essere considerate, cioè, solo come uno strumento attraverso il quale dare forma concreta ed effettiva realizzazione costruita alle sue idee, piuttosto che un “fine” pratico voluto od imposto dal pragmatismo della Scienza. E’ la Scienza in quanto “mezzo” che per Le Corbusier si deve piegare alle esigenze della “forma”, mai il contrario, come l’esempio di Rochamp dimostrerà. Le Corbusier, quindi, non pensa alla Scienza come a un metodo che “impone” soluzioni, ma, al contrario, pensa alla Scienza come a un mezzo, uno strumento, per mezzo del quale ottenere “Forme” pensate ed ideate “prima” che la verifica tecnologica venga posta in essere. Questo di certo non significa che l’ideazione, fin dalle sue prime mosse, non debba tener conto del dato tecnologico-realizzativo, ma significa ribaltare quasi del tutto il metodo ingegneristico, per il quale l’esito della forma coincide esattamente col risultato del calcolo.
Quindi, se da un lato l’accettazione della tecnologia contemporanea è assecondata senza alcun dubbio o ripensamento, dall’altro è palese in Le Corbusier un trascendimento della mera attualità. In Le Corbusier la condizione contemporanea è accettata completamente non in quanto rovesciamento del passato, quanto come riaffermazione di quella unità originaria tecnica-forma che ritorna, immutata e senza tempo, anche nelle sue opere.
Risulterebbe eccessivamente ampia, in un contesto come questo, l’analisi e l’illustrazione di tutti i progetti di Le Corbusier in cui appare determinante, ai fini del risultato formale, l’uso delle proporzioni auree sia nel dimensionamento di ogni singolo elemento della composizione che nello stabilire i rapporti di distanza o di affiancamento tra un elemento e l’altro. Un fatto però appare chiaro a chi ha avuto la pazienza di curare questa analisi in modo dettagliato: Le Corbusier utilizza il “Modulor” e “compone” i propri edifici con lo stesso spirito di chi, in passato, utilizzava il “Modulo” classico per proporzionare gli edifici composti secondo i canoni degli Ordini architettonici. La presenza e l’uso del “Modulor”, nell’opera di Le Corbusier, assumono una funzione prevalentemente “estetico-formale” più che una funzione “tecnico-produttiva”.
A riprova di questa posizione, appare utile ripercorrere, seppur brevemente, le argomentazioni con le quali Le Corbusier esprime il proprio dissenso rispetto alle posizioni di Gropius e di Wachsmann rispetto alla questione della coordinazione modulare nell’ambito dell’aspirazione, ampiamente promossa in quel periodo storico da molti architetti appartenenti al Movimento moderno, verso il raggiungimento della totale produzione industriale dei componenti dell’edilizia allora sintetizzato con il termine di “prefabbricazione”. L’edificio, inteso come “macchina per abitare”, avrebbe dovuto essere composto, al pari di un’automobile o di un elettrodomestico o di qualsiasi altro prodotto industriale, di “parti-da-montare” le quali, per risultare compatibili l’una con l’altra, avrebbero dovuto soggiacere ad una coordinazione dimensionale stabilita a priori. E anche le progettazioni dei singoli edifici, per poter risultare compatibili con l’uso delle “parti-da-montare-prodotte-industrialmente”, avrebbero dovuto utilizzare, come base regolatrice del disegno, una “griglia-di-riferimento” dimensionata con multipli e sottomultipli dell’unità dimensionale coordinata prestabilita a priori.
Chiamato a collaborare con l’ANFOR (Association Francaise de Normalization), Le Corbusier dichiara, quasi da subito, la sua avversione verso la serie numerica stabilita dall’ANFOR per l’edilizia. Ciò che egli non può accettare nel sistema dell’ANFOR è il fatto che questo nasca da un approccio al problema molto distante dal mondo dell’Architettura. L’ANFOR proponeva, infatti, per l’edilizia una serie di misure basate sull’uso dei “numeri normali” in modo che tutte le misure da utilizzare nel progetto potessero risultare regolate e distribuite con l’utilizzo delle normali operazioni aritmetiche di somma, moltiplicazione, divisione, sottrazione. Ciò che Le Corbusier contesta, nella natura di tale scelta operata dall’ANFOR, è il fatto che, in un metodo di progettazione basato sull’uso dei “numeri normali” non viene minimamente preso in considerazione il problema della “Unità delle misure che danno proporzione a un edificio”, e qui Le Corbusier usa il termine “Unità” nel senso di “Rapporto reciproco” e di “Rapporto che genera proporzione”. Ciò che Le Corbusier contesta è la posizione meramente utilitaristica del sistema proposto all’ANFOR, una posizione che badava più alle esigenze pratiche di produzione industriale che alle esigenze formali e compositive dell’architettura. Per esemplificare il dissenso di Le Corbusier in un contesto artistico differente, sarebbe stato come affermare che un poeta, nel mettere a punto il suo lessico e nell’operare la scelta delle parole con le quali esprimersi in poesia, avrebbe dovuto attingere da un elenco di termini precostituito a priori, imposto e immodificabile. Cosa del tutto inaccettabile per un artista, ovviamente.
Quindi, le battaglie che Le Corbusier compie in tale ambito sono fondamentalmente due. Da un lato combatte contro il pericolo costituito dall’appiattimento compositivo cui un sistema costruttivo formato esclusivamente sui “Numeri normali” e su elementi precostituiti industrialmente avrebbe sicuramente approdato. Da un altro lato però, sempre promuovendo le “ragioni dell’Architettura”, Le Corbusier combatteva, all’interno dello stesso Movimento moderno, una battaglia contro una visione eccessivamente semplicistica della “funzione” che raggiunse il suo punto di culmine nella polemica con Karel Teige.
Il Maestro, in questa polemica, cerca di tenere sempre una posizione pacata, in quanto non intende accendere gli animi all’interno del Movimento moderno e all’interno del CIAM e in quanto ritiene pericoloso, per lo stesso Movimento, che vengano a determinarsi eccessive lacerazioni e divisioni in “correnti”. Ma quando a Le Corbusier, nel corso di una riunione del CIAM riguardante la prefabbricazione, sfugge un “ … arrivo troppo tardi per partecipare al gioco un po’ ingenuo di questi amici. Il problema rimane aperto in quanto non risolto: Wachsmann ha adottato uno standard a mo’ di scacchiera regolato sul modello unico della griglia quadrata. I giapponesi della tradizione nipponica hanno costruito, durante i secoli, le loro stupende case di legno su un modulo sicuramente più raffinato: il tatami. L’Architettura ha sempre le sue ragioni, ma qui non se ne tiene conto”, appare chiara la sua dichiarazione di totale dissenso rispetto agli esperimenti americani condotti in quegli anni da Gropius e da Wachsmann. La denuncia di Le Corbusier rendeva evidente il pericolo costituito dal fatto che le esigenze dell’industria, nella produzione standardizzata della componentistica prefabbricata per l’edilizia, e le impostazioni deterministiche dell’Ingegneria avrebbero potuto soffocare del tutto le esigenze dell’Architettura intesa come espressione artistica.
Così, alle misure “normalizzate” impostate dall’ANFOR, e da altri Istituiti di normalizzazione che andavano diffondendosi in Europa e negli Stati Uniti, Le Corbusier contrappone il “Modulor”, termine da lui stesso coniato come sintesi di “Modulo” e di “Section d’or”, indicando così, con una impercettibile ma chiara polemica, l’obiettivo che si propone di raggiungere.
La sua “grille des proportions”, è un reticolo che, a differenza di quanto aveva proposto Wachsmann, non è un reticolo di riferimento per il disegno, ma si propone invece come “rete di relazioni” che facilitino sia la scelta di dimensioni efficienti che la corrispondenza proporzionale tra le parti e le forme complessive dell’edificio.
A differenza delle rigide standardizzazioni proposte da Gropius e da Wachsmann, il “Modulor” vuole essere invece un sistema proporzionale aperto. Esso viene definito come uno strumento di composizione “outil à placer sur la table à dessin a cotè du compas”. E, come il compasso, la sua funzione è quella di controllare la proporzione.
Tuttavia, Le Corbusier è cosciente del fatto che, poiché il Modulor può fornire infinite combinazioni diverse, le possibilità di successo del suo “strumento” sussistono solamente se esso viene continuamente interpretato ogni volta in cui lo si utilizza. Il Modulor, quindi, non è un metodo di misura imposto a priori per semplificare la produzione industriale. Il Modulor, viceversa, è un “metodo di composizione”.
Ecco perché, a differenza dei manuali dell’ANFOR, i due libri che pubblica sul “Modulor” assumono una fisionomia assai diversa da quella di un Manuale tecnico: essi forniscono la chiave per riconsiderare e riprendere come possibili ipotesi già fatte e scartate e, quindi, per ripercorrere, in maniera inedita, l’intero processo della progettazione. Tutti gli altri sistemi di standardizzazione nascono invece da una “convenzione” che assume tanta più efficacia quanto più viene accettata in modo acritico e impersonale da chi la utilizza. Ciò risulta coerente solamente nel caso in cui l’obiettivo della standardizzazione e della coordinazione dimensionale non è quello di giungere a proporzioni significative tra le misure di un edificio ma, al contrario, è quello di evitare queste problematiche “artistiche” per concentrarsi esclusivamente sui mille e uno problemi di natura pragmatico-cantieristica. A riprova di ciò, Wachsmann, infatti, afferma: “ …. i problemi della forma in architettura hanno ormai un’importanza secondaria, perché è sul piano scientifico, tecnico, economico e sociale che cominciano a svilupparsi le forze determinanti del nuovo ordinamento”.
Le Corbusier, per quanto lontanissimo da ogni sorta di formalismo fine a se stesso, percorre una strada opposta. Per lui il senso del costruire poggia sul significato esistenziale dello spazio costruito; soltanto all’interno di questo principio si può cercare una soluzione significante ai problemi contingenti; soltanto un necessario “scatto del presente verso “l’origine”” scioglie gli ostacoli prodotti dalle incongruenze del luogo comune della praticità. Per Le Corbusier non ha alcun senso, in Architettura, distinguere nettamente il significato artistico dal significato tecnico che lo ha prodotto semplicemente perchè tale distinzione non è mai esistita nella Storia del costruire. Il “Modulor” è la chiave per accedere a questo principio della inscindibilità dei due significati. Quando Le Corbusier usa le serie numeriche del “Modulor” pensa immediatamente alle figure ed alle forme che esse possono creare e non ha più bisogno di disegnare alcun tracciato regolatore perché ne ha completamente assimilato le relazioni fondamentali di proporzione.
La ricerca di Le Corbusier rappresenta un momento centrale e un’eccezione assoluta per l’Architettura del ‘900 come anche, più in generale, per l’Architettura moderna e contemporanea in senso lato. Un centralità e un’eccezione che risultano però quasi del tutto inascoltate e inapplicate non solo nell’attuale prassi costruttiva, ma anche nello studio e nell’esame critico dell’opera del Maestro. Le Corbusier passa “alla Storia” come il primo utilizzatore su larga scala del cemento armato in edilizia in quanto questo materiale è presente quasi in ogni esemplare della sua opera; “passa alla Storia” per le sue ampie vetrate e per l’utopistica visione della città del futuro. Nessuno parla,però, della “poesia” delle proporzioni delle sue composizioni, nessuno parla, in questo senso, della sua “Classicità” e della sua volontà di non volersi separare da quel passato di cui, in ogni momento del suo operare, si sentiva pienamente erede.
Che altro è La “Ville Radieuse” se non un’altra Pienza? O un’altra città ideale simile a quella di Urbino? Cosa può essere la Ville Savoye se non un’altra palladiana “Villa Capra”, entrambe dimensionate con i principi della Sezione aurea? Cos’altro rappresenta Ville Savoye se non Storia e Modernità che smettono di contraddirsi a vicenda?
Sorrido nello scrivere questa affermazione che per molti potrebbe risultare quasi “blasfema”, ma sorrido proprio perché di tale affermazione sono convinto.
Quindi, da una parte Le Corbusier è, indiscutibilmente, uno dei più autorevoli architetti contemporanei, Le Cobusier “è” la Modernità, ma dall’altra è quel progettista, unico tra i Maestri del Movimento moderno, che fa della Teoria della Proporzione un elemento fondativo del suo operare.
Anche una conoscenza approssimativa della Storia dell’Architettura, dall’Antichità Classica alle soglie dell’Illuminismo, rivela il modo in cui la proporzione e le sue Teorie abbiano costantemente rappresentato il nodo fondamentale della disciplina. La Modernità, invece, sembra aver abbandonato l’argomento relegandolo, nel migliore dei casi, o nell’ambito delle semplici “erudite curiosità” o nell’ambito delle segrete conoscenze di eruditi Accademici che sembrano studiare il passato al fine di separarlo in misura sempre maggiore dal nostro tempo e dalle nostre coscienze, negandone completamente ogni validità.
Le Corbusier, invece, compie in due tempi una grande “resurrezione”. In primo luogo, seguendo una strada già aperta da Viollet-le-Duc, ripropone la Proporzione come metodo di costituzione del progetto “moderno” e, in secondo luogo, però, avanza questa proposta senza alcuna rinuncia o negazione della “Modernità”. Per questo il ritorno alla proporzione operato, da Le Corbusier, è messo al riparo dalle critiche più violente avanzate dal Movimento moderno verso i metodi Accademici Beaux-Arts.
Può essere “antimoderno” un edificio costruito con l’uso del cemento armato, dotato di ampie vetrate e di impianti tra i più attuali, anche se proporzionato con l’uso della Sezione Aurea? Anche se la sua ineguagliabile bellezza è data proprio dall’uso di quella proporzione che, prima di Le Corbusier, venne ampiamente utilizzata da Palladio e da Leon Battista Alberti prima di lui?
Come potremmo definire, allora, una Architettura che pur essendo – e tutt’oggi rimanendo – “modernissima” non è “anticlassica”?
Il “Modulor” rappresenta, quindi, un contenitore ragionato di misure combinabili secondo un ampio spettro di possibilità. L’architetto più imprevedibile del ‘900 mostra con la sua vasta opera che la Proporzione, intesa come metodo di “Composizione”, non è solamente un inutile e sterile mondo di numeri e canoni proporzionali, inadatto intralcio per la Modernità. Ma affonda nel problema, lo sviscera totalmente e ne scrive con abbondanza lasciando un patrimonio esteso di strumenti operativi di grande validità per l’Architettura.
Durante la sua vita compie un lavoro enorme per giungere a questo risultato. Tuttavia, la Storia dell’Architettura contemporanea, fatte alcune doverose eccezioni, non è stata in grado di rilevare la portata e la straordinaria qualità artistica di questo enorme lavoro, probabilmente per motivi molto più profondi di quanto la moderna storiografia possa sospettare e percepire. Certamente la “fuga-in-avanti-del-progresso” non ammette “contemplazioni”, non ammette amore per la stupida bellezza “sovrastrutturale”.
Sotto quest’ottica diventa palese il motivo per cui Le Corbusier ha difeso così strenuamente la sua Ville Savoye dal pericolo della sua demolizione; per queste ragioni questo piccolo edificio deve essere considerato, nell’ “Opera completa” del Maestro, con la stessa importanza e grandezza di quella solitamente riservata a progetti e realizzazioni dimensionalmente molto più rilevanti.
Il metodo proporzionale.
Esaminando attentamente la pianta quadrangolare della Ville Savoye da un punto di vista metrico, è possibile riscontrare che, differentemente da ciò che potrebbe sembrare, il perimetro non è quello di un quadrato perfetto; le dimensioni dei suoi lati in realtà risultano essere di m 21,25 per il suo lato maggiore e di m 19,00 per il suo lato minore. Stranissima questa scelta dell’autore. Viene da chiedersi: perché mai questa lieve differenza nella dimensione delle due coppie di lati paralleli? Nell’intento di dar forma a un’idea di perfezione, non avrebbe avuto più senso realizzare la pianta secondo lo sviluppo di un quadrato perfetto? Se poi operiamo il rapporto tra i due lati, dividendo 21,25 per 19,00 otteniamo il numero 1,118421052631579. Un’altra stranezza incomprensibile.
Tuttavia, se riportiamo alla nostra memoria i canoni proporzionali aurei, quei canoni che, fin dai tempi della Classicità greca e poi per tutto il Rinascimento, senza mancare in alcuni importanti esempi del Medioevo, sono stati sempre posti alla base della costituzione della Forma dell’Architettura, qualche indizio ci appare subito utile nel tentativo di chiarire questa incomprensibilità dimensionale, questa apparente assurdità dell’adozione formale di questo quasi-quadrato che quadrato però non è.
Questa che segue è la ricostruzione del canone proporzionale utilizzato da Le Corbusier nel dar forma a Ville Savoye:
Supponiamo di prendere in considerazione un quadrato di lato 1 come questo:
Supponiamo ora di raddoppiarlo affiancando al primo un secondo quadrato di identiche dimensioni ottenendo così, da questo affiancamento, un rettangolo di lati 2 x 1 suddiviso a metà da una linea verticale:
Ora suddividiamo a metà il rettangolo 2 x 1 (o i due quadrati affiancati) con una linea orizzontale mediana ottenendo così quattro rettangoli e in ciascuno dei quattro nuovi rettangoli interni tracciamo una diagonale per ottenere così un rombo interno al rettangolo:
Adesso applichiamo il principio della Sezione aurea, cioè il metodo di costruzione del rettangolo aureo, e, puntando il compasso sul punto medio del lato sinistro verticale del rettangolo (o sul vertice sinistro del rombo) ribaltiamo le diagonali di due rettangoli opposti interni (o di due lati opposti del rombo) sulla verticale e prolunghiamo il lato sinistro del rettangolo in alto e in basso fino a toccare i due ribaltamenti delle diagonali:
Facciamo ora la stessa identica cosa sul lato opposto del rettangolo di partenza e successivamente, chiudendo semplicemente la figura con i due lati orizzontali superiore ed inferiore, otteniamo un rettangolo finale che, come lato minore, ha la dimensione di valore 2 e, come lato maggiore, ha la dimensione di valore 2,2361
Se adesso dividiamo il valore di 2,2361 del lato maggiore con il valore 2 del lato minore otteniamo, come rapporto, il valore di 1,11805.
Considerando che il lato minore della Ville Savoye è di 19 m, se moltiplico il valore 19 per 1,11805 ottengo, come lato maggiore del rettangolo, il valore di 21,24295 che nella realtà costruttiva del cantiere è stato tradotto in 21,25 metri, essendo il valore di un centimetro, come è comprensibile nella realtà pratica del cantiere, l’unità di misura minima utilizzabile.
Adesso, quindi, ci risulta più chiara la motivazione che ha condotto Le Corbusier all’adozione di quel “quasi-quadrato-che-quadrato-non-è”. Di cosa si tratta in realtà? Quel quasi quadrato, che quadrato non è, rappresenta, in realtà, la sovrapposizione o, meglio, l’intersezione di due rettangoli aurei a destra ed a sinistra della figura d’impianto. E risulta chiaro a questo punto che, in un contesto così proporzionato, poco importano le dimensioni reali adottate. Similmente a quanto avveniva nell’applicazione dei canoni di proporzionamento nell’ambito dell’Architettura classica, la proporzione tra le parti travalica la dimensione concreta del Monumento. Per esempio, la proporzione secondo il rettangolo aureo in √5, utilizzata diffusamente nella Grecia classica nel dimensionamento della pianta dei templi peripteri (il Partenone di Atene, in questo senso, ne incarna, forse, l’esempio più celebre) viene applicata indistintamente sia nei templi di dimensioni minori, sia in quelli di dimensioni più vaste come, appunto, nel Partenone di Ictino e Callicrate. La proporzione, come sempre e per sua stessa funzione, prescinde dalla dimensione.
Del resto, se esercitiamo un po’ di memoria, quel valore di 2,2361, lato maggiore del rettangolo aureo costruito sul quadrato di lato uno, che cos’altro è se non il valore approssimato della √5 che, senza approssimazione, risulta essere proprio 2,23606797749979? Tutto torna. Tutto è perfetto.
Con una domanda sicuramente banale, ma a questo punto assolutamente necessaria, viene da chiederci: cosa ha a che fare tutto questo con l’espressione della forma-che-segue-la-funzione? Col pragmatismo tecnico-economico del Movimento moderno di Gropius e Wachsmann? Questa poesia della pura Propozione non ascolta le ragioni pragmatiche della funzione, ma ascolta piuttosto le ragioni poetiche dell’espressione artistica:
“ …. la beauté des volumes purs sous la lumière”.
I nuovi materiali, il cemento, l’acciaio, le ampie vetrate rappresentano il necessario tributo verso la “Modernità”, ma la “Divina Proporzione” è “l’Eternità” senza tempo dell’Arte.
Ma, se continuiamo nella nostra analisi, un analogo metodo di proporzionamento viene utilizzato nella conformazione delle facciate verticali.
Prendendo in esame uno dei prospetti laterali, ripartiamo dallo stesso quadrato unitario di lato 1 già adottato come punto di partenza per il proporzionamento della pianta dell’edificio:
Anche per il proporzionamento di questa facciata raddoppiamo il quadrato affiancando al primo un secondo quadrato di lato 1 per ottenere, così, un rettangolo di lati 2 x 1:
All’interno di questo rettangolo 2 x 1 tracciamo le diagonali interne le quali, in quanto diagonali di un rettangolo ottenuto dallo sdoppiamento di un quadrato di lato 1, avranno, ciascuna, la misura di √5:
Suddividiamo adesso in due parti ciascuno dei due quadrati affiancati tracciando semplicemente la loro linea mediana verticale; ciascuna delle quattro parti uguali ottenute avrà, quindi, una larghezza di valore 0,5:
Considerando, ora, una qualsiasi delle quattro parti uguali ottenute (prendiamo per esempio in considerazione la quarta parte sulla destra della figura) dobbiamo tracciare al suo interno, adiacente al lato inferiore di base, un rettangolo aureo il cui lato maggiore orizzontale, in rapporto col suo lato minore risulti di valore proporzionale 1,618. Poiché il valore del lato maggiore orizzontale di questo rettangolo aureo voluto risulta già stabilito nel valore di 0,5, applicando la semplice divisione 0,5:1,618, si ottiene facilmente che la misura del suo lato minore verticale debba risultare di 0,309.
Riportiamo ora, simmetricamente, questo rettangolo aureo così ottenuto in corrispondenza degli altri tre vertici del rettangolo di dimensioni 2 x 1:
Adesso, l’altezza di valore 1 del rettangolo risulta suddivisa in tre parti proprio dal posizionamento, sui quattro vertici del rettangolo complessivo, dei quattro rettangoli aurei minori aventi ciascuno il valore 0,5 come lato maggiore. Sarà infatti sufficiente, a questo punto, prolungare sulla linea mediana verticale del rettangolo complessivo i quattro lati maggiori dei quattro rettangoli aurei minori per ottenere la partitura della facciata suddivisa in tre fasce orizzontali:
Se adesso, come ultimo inserimento all’interno dello schema proporzionale, tracciamo due parallele alle diagonali interne partenti dai due vertici inferiori del rettangolo complessivo fino al loro incontro con la linea orizzontale di base della fascia intermedia, otteniamo graficamente il valore dello sbalzo del piano abitativo rispetto alla struttura portante dei pilotis.
Se ora tracciamo il semicerchio con centro in “C” ed estremi in “A” ed “E” otteniamo, in alto, la posizione della linea superiore della finestra a nastro del piano abitativo il cui ribaltamento in basso. rispetto alla linea mediana dello stesso piano ottenuta col semicerchio “B” “E” di centro “D”, ci fornisce la linea inferiore della stessa finestratura.
Alcune osservazioni finali sullo schema complessivo del proporzionamento della facciata:
La lunghezza complessiva della facciata, comprensiva dei due sbalzi opposti sinistro e destro, coincide esattamente con la misura 2,236 ottenuta per il lato maggiore della pianta applicando la costruzione di proporzionamento planimetrico precedente;
Analogamente il valore dello sbalzo, a sinistra e a destra, risulta di 0,118 sia in prospetto che in pianta;
La lunghezza complessiva del piano abitativo, del valore di 2,236 sia in pianta che in alzato, ha il medesimo valore della diagonale del rettangolo di partenza di lati 2 x 1 – e cioè √5 – identica anche al valore del lato maggiore della pianta.
L’analogia col metodo “classico” è qui evidentissima: l’applicazione di un metodo di proporzionamento “a-dimensionale” regola la conformazione complessiva del Monumento, tanto in pianta quanto in alzato, attraverso l’uso di un “Modulo” (al quale nelle nostre costruzioni grafiche è stato attribuito il valore dell’unità “1”) la cui effettiva dimensione può essere mutevole, in base alle esigenze di ciascun singolo caso, e indifferente rispetto al risultato. Non è casule a questo proposito ricordare il fatto che il “Modulo” di partenza (il quadrato iniziale di lato “1” del nostro esempio esplicativo), adottato da Le Corbusier nella stesura del primo progetto nella misura di 5,00 metri, sia stato poi ridotto, per motivi economici, a 4,75 metri senza per questo modificare l’impianto proporzionale d’insieme. Anche nel sistema proporzionale “classico”, nell’usuale proporzionamento degli “Ordini”, il Modulo di partenza (coincidente col raggio M o col diametro Mx2 della colonna) poteva variare a piacimento, in funzione della misura complessiva da assegnare alla costruzione, senza che per questo le proporzioni d’insieme dovessero variare entro un sistema in cui la singola misura di partenza “M” assegnava automaticamente, per via proporzionale, la dimensione a tutte le altre parti della composizione dell’edificio.
Quindi, in questo senso, un Le Corbusier “Classico”?
La risposta a questa domanda non può esser altro che un: decisamente “sì”.
Ma se valutiamo come corretta questa risposta occorrerebbe allora mutare radicalmente la motivazione con la quale, tra il 2016 e il 2017, l’UNESCO ha introdotto le opere di Le Corbusier tra i siti patrimonio dell’umanità. Scrive infatti l’UNESCO nella sua motivazione: “ …. gli edifici dell’opera di Le Corbusier sono “una testimonianza dell’invenzione di un nuovo linguaggio architettonico che segna una rottura con il passato”.
Nessuna motivazione potrebbe risultare più inesatta di questa.
Ville Savoye – Facciata laterale – Disegno autografo di Le Corbusier – 1928 – 29
Ville Savoye – Veduta prospettica sulla terrazza a livello del soggiorno
Disegno autografo di Le Corbusier – 1928 – 29
La Ville Savoye in costruzione del 1929
Ville Savoye – Vista sul garage al piano terra pilotis
Ville Savoye – Il soggiorno e le vetrate sulla terrazza a livello
Ville Savoye – Piante dei piani Pilotis, Abitativo e Solarium
Ville Savoye – La stanza da bagno
Ville Savoye in stato di abbandono dopo il 1945
Ville Savoye – Il Solarium
Ville Savoye – Disegni d’insieme e tracciati proporzionali
Ville Savoye – La scala interna e la rampa

Ville Savoye – Esterno
Ville Savoye – La terrazza a livello del piano abitativo
Ville Savoye oggi, dopo il restauro